La ballata dello Tsunami

 

E un Dio, soprappensiero, disse a sè:
agli altri sport preferisco il surf.
Una onda lunga che mi porti lontano
dall’Asia all’Africa velocemente
una o due volte, rapido come un torrente
in piena.
Impavido il Dio guerriero ondeggia
veleggia a braccia aperte ed occhi spalancati
in cieli ed orizzonti limpidissimi.
Del suo pensiero il Dio,
forse persino quello dei nostri padri ebrei,
il peso non avverte
che con lui viaggino morte, carestia e qualche
residua guerra
non lo sa, oppure era già scritto.
Su di una terra rattoppata, lisa,
a guisa di una pala
che un castello di sabbia scomponga
che un secchio di acqua disciolga
in rivoli marrone
lasciando delle orme inconoscibili
passa.
Del dolore, del nostro soffrire domando
e nessun teologo mi convinse mai
che l’amore di un Dio si manifesti
con la sofferta morte
e che la sorte di un qualunque bambino, persino
la sua lunga agonia
valga a salvarci l’anima.
Il Suo Figlio soffrì, ma fu per scelta
libera. Oppure no?
Una giustizia che colpisca nel mucchio
pure se sia divina non accetto,
di fronte a lei metto il mio perché
che non afferra spiegazioni o risposte.
Nella mia indegnità, rimasto solo,
so che nemmeno dopo capirò.
Quando sarò passato nulla sarà svelato.


Il posto e il premio che mi era donato
che mi dicevano preparato
già da tempo è cassato
dai miei dubbi e paure.



Piangono i grandi della terra, allibisce la gente,
ma, salvo dare fondo ai magazzini,
tutto rimane eguale.
Ci sentiamo più buoni per un clic al telefono
o più d’uno.
E al di là della impresa condivisa,
dell’aiuto immediato,
dimenticando la natura uccisa
e le persone
un rapido belletto tentiamo, prima
che la voglia di tornare in quei luoghi si spenga,
lì fra la sabbia fine e per qualcuno
fra le cosce delle bambine
o se gli va di un maschietto
con poca spesa, in valuta pregiata,
chè la difesa della famiglia, del feto
e della razza
a casa mia la porto avanti e conta
qui si gioca, qui siamo in vacanza,
si gode e si schiamazza.
E se ci scappa mi adotto un qualche bambino
sperduto, poverino, io lo faccio star meglio
credetemi,
che male poi ci sarà se lo porto di qua
e gli do una famiglia?
E che parapiglia poi se acquisto
gli organi ai tanti qualcuno,
che male si fa se nessuno lo sa?
Che male faccio salvando la vita ad uno di noi
quand’era, credetemi, già spenta, finita?
A fronte di migliaia più contano i nostri cento morti
e la nostra coscienza è tranquilla
(un sistema di allarme sarebbe costato troppo,
avrebbe inciso su i guadagni dei residenti
avrebbe impedito l’aggiornamento degli armamenti).


Pei nostri aiuti più buoni ci sentiamo tutti.
I distrutti luoghi risorgeranno
senza nessun colpevole.
Al di là delle palme, in file ben ordinate, stanno
le fosse comuni impastate di lacrime e dolore.
La sera, sorseggiando una bibita esotica
accarezzati da un fresco vento dal mare
un canto che ci giunga da lontano conforta,
che sia anche funebre non importa
basta che sia suggestivo,
e che, possibilmente, sappia un poco di primitivo.



Privo della capacità di sentire risposte,
senza immedesimarmi in una qualche fattiva azione
isolato nel mio caldo rifugio,
malgrado accosti l’orecchio del cuore
alle cose, all’aria, al cielo,
al mio perché orgoglioso, peccaminoso,
rifiuto che questo mia convinzione
mi sia conteggiata, persino da Lui,
che eppure ho cercato,
come peccato.