Il Cantico di Lourdes

 

Era già sera, la carne e l’altre cose,
misere cose, m’erano di impaccio.
Un malgrado accorava,
come ancor oggi accora.

A tratti un fiotto di postulanti giovani voci
dissipava il silenzio
e il cadenzato ripetersi dei versi.
Solamente a tratti, ma riuscivo, sforzandomi,
a isolarlo fuori da me. Indulgendo.

Il silenzio che eppure era presente
s’allungava e incombeva
fra le parole e i canti.
Era una cosa naturale e semplice.
Avvertivi talvolta presenze senza volto,
attese che c’erano già state,
poste su una speranza,
come una danza costante di delusioni
e emozioni
che impregnava di sé le pietre e l’aria.
Che eppure empiva l’aria,
trasudava nell’aria e ti bagnava.

E correva la mente come il fiume
mormorando ugualmente
senza una meta certa.
E l’inutilità e la piccolezza
di tutti noi, davanti a sé
soltanto un dio schermava.

Per quanto greve fosse l’apparente peso
stava costante sopra di noi premendo
alta e profonda l’aria.
Scura, nera, inviolata.


Dentro di me avvertivo lo svuotarsi,
l’assenza di tremori e di domande.
Senza merito alcuno, senza accorgermi
il mistero assorbivo.
Quel credere che invidio e che non posso
sfioravo quasi.

C’era una lieve illusione
in tutti noi e l’avvertivi,
che tutto ci fosse perdonabile o quasi,
senza necessità di definire
e limitare il tutto.

I passi già compiuti e che cercavo,
l’amore che non provavo,
l’accanirsi del tempo sull’età,
su una fisicità in dissoluzione,
lo sfrigolio delle illusioni perse.
Un futuro che più non c’è,
uno scopo perduto
piangevo.
Il perché di questo mio, nostro, vagare
quella sera,
pregando lo trovai, barlume, fra le mie dita
aperte.
Come rena d’estate dall’unghia mi sfuggiva.
Senza paura alcuna
lo guardavo andar via. Serenamente.

Stavo lì.
Uno star lì senz’esserci,
una voglia d’essere preso in braccio e consolato.
Un istante soltanto di un me salvato, puro.
Senza peccato.